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Politica

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Aharon Shabtai

Collana: Poesia come pane

Pagine: 104

Traduzione: Davide Mano

Cura: Davide Mano

Prezzo di listino €13,00 EUR
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Shabtai pone al centro della sua opera la vita privata, svelandola fin nei particolari più intimi, esponendo così la sua intera persona al pubblico. Dal divorzio dalla prima moglie all'intensa storia d'amore con Tanya Reinhart, dai violenti attacchi contro i governanti alle accuse nei confronti dell'establishment letterario israeliano, i temi del privato si uniscono a quelli del politico in un unico corpus poetico. Più spesso è il politico a farsi privato, sfidando non solo lo status della letteratura ebraica, ma anche il senso del pudore, i tabù e le gerarchie della società israeliana in genere.

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La collezione di poesie ebraiche che qui si presenta raccoglie la recente produzione letteraria di Aharon Shabtai, uno tra i maggiori esponenti della poesia politica in Israele. Attento e originale osservatore delle vicende del conflitto israelo-palestinese, Aharon Shabtai è uno degli uomini di cultura in Israele ad avere più apertamente dichiarato il suo dissenso, opponendosi in maniera categorica, attraverso i versi delle sue poesie, all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e alla costruzione del muro di separazione.
Egli è conosciuto in Israele, fin dagli anni Ottanta e Novanta, per la sua poesia erotica, incentrata su una metafisica del sesso e del corpo. In queste composizioni, ordinate secondo brevi frammenti, la personale ricerca delle forme della materialità erotica raggiunge una radicalità, nel linguaggio come nelle ardite immagini evocate, che si ritrova ancor più esaltata nella più tarda produzione politica.
Shabtai pone spesso al centro della sua opera la vita privata, svelandola fin nei particolari più intimi, esponendo così la sua intera persona al pubblico. Dal divorzio dalla prima moglie all’intensa storia d’amore con Tanya Reinhart (docente di linguistica e analista politica radicale, recentemente scomparsa), dai violenti attacchi contro i governanti alle accuse nei confronti dell’establishment letterario israeliano, i temi del privato si uniscono a quelli del politico in un unico corpus poetico. Più spesso è il politico a farsi privato, sfidando non solo lo status della letteratura ebraica, ma anche il senso del pudore, i tabù e le gerarchie della società israeliana in genere.
Certamente, sono le violente invettive dell’ultimo Shabtai ad aver suscitato le reazioni più risentite. Molte delle poesie qui raccolte, apparse la prima volta sull’inserto letterario del quotidiano Ha’aretz, hanno causato una serie di lettere di protesta, ed anche minacce di annullamento degli abbonamenti.
Nella poesia di Aharon Shabtai, i temi del politico sono affrontati con una ricca gamma di registri, dal satirico al sarcastico, dal sublime al sentimentale, fino al kitsch e al comico. La cronaca del drammatico conflitto tra israeliani e palestinesi emerge attraverso i diversi usi retorici, che l’autore sperimenta con l’intento di mettere a prova la scrittura poetica e calarla sui toni bassi del reale. È in questa operazione radicale e provocatoria che si concentra la carica d’opposizione della poesia di Shabtai.
Al presente di una società fantasma, chiusa a riccio davanti ai pericoli di una guerra totale, Shabtai oppone un’attenzione per l’evento nella sua traumatica, dolorosa essenzialità. Per contro a un dibattito pubblico miope, che sempre più colpevolmente mette in secondo piano la barbarie dell’occupazione, Shabtai si propone in veste di informatore, di educatore e maestro. Come un poeta che, affrontando l’orrore del suo tempo, si guarda allo specchio, e parla al suo popolo.
Le poesie di Shabtai spingono a far riflettere il lettore sugli effetti della logica dell’occupazione israeliana, non solo sulla vita degli oppressi ma anche su quella degli stessi oppressori. Shabtai si chiede come possa esistere ancora cultura, e come possa nascere poesia, in uno Stato che si macchia di crimini efferati, in mezzo a un popolo che soggioga un altro popolo.
La poesia trova il suo posto nel dissenso: suo dovere è quello di opporsi, denunciare, farsi dunque strumento d’accusa. In questo J’accuse rivolto al suo paese, grande importanza ha la personale esperienza di vita di Shabtai: egli fa continuamente appello ai valori fondanti della società ebraica nata in Palestina e ai principi democratici dello Stato ebraico sorto sul modello socialista.
Le poesie incluse in questa collezione sono state composte sull’onda dei fatti, e pertanto vengono a configurare una sorta di “diario politico” dell’occupazione. L’apparato di note posto in fondo al volume è stato pensato in questo senso, per ricordare al lettore le figure dei politici e la cronaca dei fatti citati dall’autore.

Davide Mano



Prefazione

Questa raccolta di poesie di Aharon Shabtai esce in un momento per molti aspetti particolare, che può pregiudicarne una fruizione attenta a tutte le articolazioni del discorso poetico e alla ricerca formale, spesso innovativa e disinvolta che l’Autore porta avanti con determinazione, pur affrontando spesso temi di impegno civile che facilmente possono spostare l’attenzione e la sensibilità del lettore nel campo dell’emozione e della drammaticità del messaggio comunicato.
La pesante, difficile particolarità congiunturale, determinata sia dall’iniziativa politica e sia dal comportamento internazionale dello stato di Israele – l’ambito sociale dove si sviluppa quotidianamente l’attività del poeta – si complica in questi giorni per le polemiche suscitate in Francia e in Italia dall’invito allo stato di Israele come ospite d’onore delle fiere internazionali del libro di Parigi1 e di Torino. L’invito è stato sollecitato dalla diplomazia israeliana, e conseguentemente formulato dagli interlocutori europei, in occasione del sessantesimo anno dalla fondazione dello Stato Ebraico. L’iniziativa si qualifica immediatamente come “di parte”, sia rispetto alla situazione conflittuale che si registra in Medio Oriente, tra Israele e Palestina, e sia rispetto alla disputa politica interna alla società israeliana, dove l’opposizione alla linea aggressiva e oppressiva del governo attuale è da quello stesso governo duramente conculcata, per non dire perseguitata.
In questa situazione, le composizioni di Aharon Shabtai potranno incontrare polemiche e provocare fraintendimenti che non gioveranno, forse, a una lettura critica intesa soprattutto a cogliere la caratterizzazione molto originale della scrittura di uno dei più interessanti poeti contemporanei di ispirazione “civile”. La struttura stessa della compilazione, che mette insieme versi di raccolte recenti, è organizzata in modo attentamente significativo.
Dopo alcuni componimenti che documentano un sottofondo generale, un ambiente ostile e coercitivo (Aeroporto Ben Gurion, Sharon, Il muro…), si liberano a sorpresa brevi, lineari ed eleganti invocazioni, le preghiere che auspicano la sconfitta dell’esercito di Israele impegnato nella recente guerra del Libano. Inaspettatamente, queste preghiere si organizzano in un canto. “È possibile cantare in tempi oscuri? – Si domandava Bertolt Brecht – Si può cantare l’oscurità dei tempi”.
Poi, il canto di Aharon Shabtai si sviluppa su altri temi, dell’attualità o della memoria, con la stessa linearità, traendo ispirazione – con incredibile immediatezza, verrebbe da dire “freschezza” – da frammenti di una realtà quotidiana, intima ed evocativa, che si definiscono dettagliatamente emergendo dal marasma di un paesaggio di guerra, sconvolto dalla violenza o reso impenetrabile dalla devastazione – e magari congelato da un implicito giudizio morale, determinato soltanto con la scelta icastica di parole che non giudicano, dicono. La parola del poeta comunica al lettore le sensazioni della sua attenta partecipazione a una realtà difficile, a volte colta soltanto attraverso la struggente incongruità di particolari sorprendenti.

Egi Volterrani

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